Domenica di primavera! Il geranio rosso che si è salvato dalla gelata invernale, piega adesso verso il ramo dove appare un piccolo germoglio. Le ore di luce stanno aumentando, su questo fragile silenzio, ora che tutto sembra aprire ad un respiro nuovo. Non più quel carico di oscurità a gravare sui giorni, certe notti di dicembre senza luna, sentire dentro aprirsi qualcosa di dolente, l’umile voce del tempo, spandersi lungo i solchi ed i pendii della memoria. Nuova vita si annuncia, la sento tremante nel vento. E viene da lontano questa musica che sento, fino qui, dove vivo da una vita.
Qui dentro ho trascorso tutto: l’amore, la morte, la speranza. Sono trascorsa io. Ma ora il mio tempo ha perduto il suo passo vertiginoso, si è fatto docile, quasi innocente. Presente e passato si guardano senza rivalità. A tenermi compagnia, centinaia di oggetti, raccolti via via qua e là, lungo le strade. Averne percepito in qualche modo l’offesa, sentito l’agonia di un abbandono. Difficile per me capire il senso di questo essere stata madre, a modo mio. Io che per due volte ho custodito in me un frutto vero, e per due volte ho rinunciato a dargli vita. Fin dall’inizio sentii un calore spandersi, una presenza. Vi rinunciai. Certe mattine, quando l’alba è propizia, vedo due bambini guardarmi e non è sogno. Capisco che sono loro. Vorrei poter dire qualcosa, non mi è possibile. Mi sveglio. Gli occhi sono bagnati. Tuttavia, non provo colpe. Sento in qualche modo di averli esonerati dall’esistenza, dal suo preciso e puntuale taglio che recide, sperde, immèmora.
Ho sempre voltato pagina, dimenticato quello che poteva essere e non è stato. E sono riuscita a tenermi in piedi, sfrondata di tutto, di volontà, di fede, di colpe, ma su un androne vuoto, fatto solo di mura ed assenza, perché a niente ho creduto, e nessuna cosa mi è appartenuta veramente, né io a me stessa, se non confusamente. Un giorno mi sono sentita una donna, un giorno un fiore, un giorno il mare, oscillando sui bordi dell’esistenza, come una piuma. Ho vissuto sfiorando le superfici, glissando lungo i contorni. Le persone ai miei occhi perdevano presto la giovinezza, i suoi lampi favolosi. Così io le abbandonavo, in cerca di altro, di nuovo, di incorrotto.
E ricominciare. Ho cambiato nome, lavoro, città, ma dentro di me qualcosa non cambia mai, una sorgente asciutta, che continua a battere. Quella cosa sono io. Sono stata impiegata comunale, cartomante, trapezista in un circo. Mi alzavano con la corda fino a trenta metri di altezza. Non riesco a dire, se nella luce polverosa del tendone sono passata veramente io. Ricordo la musica, mentre tutti guardavano in su. Qualcosa mi è sfuggito. Il significato di me.
Adesso mi coglie un’estraneità, che sempre di più diffonde il suo bagliore accecante. Penso a Dio, al silenzio che rimane dopo averlo nominato. E scopro una piegatura, che prima non c’era. Proprio qui, un solco stretto all’angolo della bocca, verso cui questa estraneità è andata confluendo. La mia vita. La memoria ritorna a stormi e rimane sospesa. Una folla di creature emerge dal silenzio: di ognuna vedo i contorni dietro un velario, volti sperduti e diafani, sfiniti come di ritorno da un lungo viaggio. Le riconosco una ad una, nel vento del tempo. Accennano a un tentativo di domanda, ma poi si ritraggono, come intimidite. Se tendo le braccia nessuna di loro mi viene incontro. Confinate in estremi rifugi di sole, mi guardano da lontano con occhi severi.
Primavera, ora arrivi tu, con le tue immense ali di farfalla, a rinnovare l’aria e gli orizzonti. Tu che offri un contorno di luce a quelle cose che non ne ebbero mai. Forse oggi mi spingerò fino al mare. Una siepe di bosso mi inviterà a rimanere, mentre poco distante passerà un venditore di rose, col suo carretto cigolante. Ogni cosa mi sembrerà improvvisamente nuova e semplice, come se accadesse per la prima volta.
Sentirò qualcosa di me che andrà riorganizzandosi. Il canto della rondine verrà ad annunciarlo, indicibile di dolcezza. Rimarrò in silenzio, ad ascoltare il respiro del mare.
Testo di Valentina Romanelli